Sto parlando al plurale perché, dalla mia esperienza, i pensieri che sto per buttare giù di seguito non appartengono soltanto a me, ma a molte madri.
Sto parlando al plurale perché voglio tirarvi dentro, vedere quante siamo a condividere le stesse emozioni e stupirci di non essere le sole.
Sto parlando al plurale perché siamo in tante a sentirci spesso sbagliate e solo fra di noi forse riusciremo veramente a capirci.
Parto da me.
Soffro di una sindrome che si chiama “ci fosse una volta che sono contenta” e che parte dal profondo concetto “lamentati per stare bene”. Sindrome incurabile perché ben so che mai smetterò di lamentarmi e che cercherò sempre di ottenere di più o di meglio.
Passo per mia figlia.
La sindrome ha avuto il suo exploit quando è arrivata mia figlia.
La facevo facile. Facevo facile la gravidanza (e si in realtà rispetto al seguito è stata una passeggiata), facevo facile il parto (qui stendiamo un velo pietoso), facevo facile l’allattamento (ho anche sperato di coricarmi una sera e risvegliarmi mucca l’indomani mattina per svolgere a dovere il mio compito), facevo facile la maternità insomma.
E invece facile non lo è stata per un tazzo. Dal pensiero di non avere abbastanza latte, alle notti insonni, dalle coliche allo spannolinamento, molte sono state le volte in cui, guardandomi allo specchio, mi sono detta “ma a me chi me l’ha fatto fare?”. Ed eccoci qui a quello che io chiamo il “bipolarismo imperfetto” di questa mia sindrome: pensare per un attimo una cosa che effettivamente è un po’ da me*da e sentirsi immediatamente ed almeno per i due giorni successivi davvero una me*da per aver fatto quel pensiero.
E così un continuo di up & down che, quando si addormenta alle 9 senza fare storie e con l’ultimo capriccio registrato alle ore 16, ti senti una mamma fantastica, con un figlio fantastico e ne faresti altri tre; quando invece si addormenta all’1 di notte ed è dalle 7 che ti fa dannare, lo regaleresti al primo che incontri.
E parliamo del mondo del lavoro (che novità eh, sapete che non ne parlo mai no?).
CATEGORIA 1
Stai a casa per crescere tuo figlio e ti senti in difetto. Non vedi l’ora di uscire, fosse anche per andare in farmacia e, quando arriva tuo marito la sera, glielo lanci tipo Michael Jordan alla finale NBA del 91’ che, appena si azzarda a dirti che è stanco dopo una giornata di lavoro, vorresti eliminarlo dal pianeta.
CATEGORIA 2
Lavori, porti i soldi a casa, ti senti indipendente, non hai rinunciato alla tua carriera, ma la sera torni fra le tue quattro mura e l’unico tuo pensiero è che ti sei persa il suo primo passo, la sua prima parola, la sua prima cacca nel vasino. Così la sera vai a letto con l’intento di licenziarti l’indomani.
Non c’è scampo o via di fuga: in qualunque caso siamo troppo esaurite per goderci appieno i nostri figli.
Ditemi: chi di voi sta a casa quante volte (per sopravvivenza chiaramente eh!) fa le pulizie al posto che giocare con i propri figli? E così, su 24h di stretto contatto, alla fine, per quanto tempo avete staccato davvero la spina e vi siete dedicate completamente a loro? (Pensate che i pedagogisti sul punto ritengono sia meglio trascorrere 30 minuti veri, liberi e concentrati totalmente sul gioco, piuttosto che una giornata intera con la testa rivolta a tutti i problemi del quotidiano).
E chi di voi lavora invece quante volte pensa “gli mancherò? Cosa starà facendo adesso? Cosa mi sto perdendo? Sto facendo la cosa giusta?”.
Finiremo sempre per non essere totalmente soddisfatte, ci dimenticheremo magari delle notti insonni e di quelle volte in cui abbiamo pensato che la nostra vita da single non era poi tanto male, ma non passerà giorno in cui, in un modo o in un altro, ce la prenderemo con noi stesse senza un reale motivo. Così, proprio per sport.
Vi lascio con una riflessione:
Ma, secondo voi, i papà tutti questi viaggi mentali se li fanno?
Ve lo dico io: NO!
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Laura